Il Piano d’Azione per l’economia sociale: genesi e sviluppi a livello europeo (I parte)

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Leggi la prima parte dell'intervista di welforum.it a Gianluca Salvatori sulle trasformazioni in atto nel mondo dell'economia sociale.

L’intervista di welforum.it a Gianluca Salvatori

Federico Razzetti e Patrik Vesan, a margine del seminario dedicato al Piano d’azione e alle sue ricadute nazionali e locali del 23 giugno ad Aosta hanno raccolto il punto di vista del segretario generale di Fondazione Italia Sociale sulle trasformazioni in atto nel mondo dell’economia sociale.

Il 23 giugno 2022 la Fondazione comunitaria della Valle d’Aosta ha organizzato ad Aosta, in collaborazione con la sezione regionale del Forum del Terzo Settore, il CVS-Valle d’Aosta e le principali centrali cooperative valdostane, un seminario dedicato al Piano d’azione e alle sue ricadute nazionali e locali. 

Come si è arrivati all’approvazione di questo Piano d’Azione da parte della Commissione europea e come si inserisce negli sviluppi osservabili a livello internazionale in tema di economia sociale?

Quella degli ultimi sei mesi è senza dubbio una stagione eccezionale. Tre grandi istituzioni internazionali hanno preso posizione affermando l’importanza dell’economia sociale: l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil), l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo europeo (Ocse) e, appunto, l’Unione europea (Ue). Per la prima volta nei suoi 103 anni di vita, l’Oil ha posto il tema dell’economia sociale, assieme al “lavoro dignitoso”, al centro di due settimane di incontri, organizzati tra fine maggio e inizio giugno 2022, nell’ambito della cosiddetta General Discussion, giungendo all’adozione di una Risoluzione. Negli stessi giorni, l’Ocse ha assunto, sempre per la prima volta nella storia di questa organizzazione, una Raccomandazione in tema di economia sociale e, a ritroso, a dicembre 2021, abbiamo il varo del Piano d’Azione della Commissione europea. Si tratta di qualcosa che non era mai avvenuto prima.

Come si spiega questa svolta?

Se guardiamo a come nasce il Piano d’Azione europeo capiamo anche perché oggi si parla di economia sociale in sede internazionale e perché è definita come un elemento strategico per il futuro del nostro pianeta. L’Europa, fino a dieci anni fa, nelle sue strategie e nelle sue politiche non prevedeva nessun riferimento né al Terzo Settore né all’economia sociale, se non in modo molto marginale. E questo perché, a partire dagli anni ‘80, quella che oggi chiamiamo Ue aveva come obiettivo principale la creazione di un mercato unico, uno spazio di libera circolazione di beni e persone in cui la competizione potesse svilupparsi con il minor vincolo possibile da parte dei singoli Stati. L’idea che ha guidato tre decenni di sviluppo europeo era quella del “livellare il campo di gioco” (levelling the playfield). Se ricordate la Strategia di Lisbona 2001, il suo motto era rendere l’Europa l’economia della conoscenza più competitiva al mondo. L’accento, insomma, era sul creare le condizioni per la massima competitività e solo dopo si aggiungeva il riferimento ai temi dell’inclusione sociale. Questa è stata l’Europa fino alla crisi del 2008. Nel periodo 2008-2012, tra la crisi dei subprime e quella dell’Eurozona, una certezza radicata – il principio del market first – è stata scossa alle radici. Il 2008-2012 è stato veramente un passaggio storico e noi oggi facciamo ancora fatica a capire che stiamo vivendo le conseguenze di quella crisi.

Se il 2008 è uno spartiacque, da allora come si è sviluppato il percorso che ha portato al Piano d’Azione approvato a dicembre?

Se noi guardiamo indietro a questi quattordici anni, si sono inanellate una serie di crisi, di cui le più recenti sono quella pandemica e oggi quella bellica, per non parlare della crisi “invisibile”, quella climatica: quattordici anni in cui è stato revocato in dubbio il potere del mercato di farsi carico della complessità. Dalla prima metà degli anni ‘80 lo Stato è stato considerato un intralcio. Dal 2008, invece, lo Stato è tornato prepotentemente alla ribalta perché ha salvato le banche coinvolte nel crack dei subprime, ha evitato l’esplosione dell’Eurozona, durante la pandemia è stato il soggetto che ha dimostrato di poter fare cose inibite a qualunque altro soggetto (confinarci nelle case, chiudere attività economiche…). E tuttavia si tratta di un ritorno dello Stato che non avviene alle condizioni in cui lo avevamo lasciato. Lo Stato che torna oggi al centro della scena non è sorretto da quella fiducia, da quella autorevolezza, da quel sostegno da parte della società di cui godeva negli anni del Dopoguerra. Non è lo Stato del boom o dei Trenta Gloriosi. Quindi ci ritroviamo con uno Stato al centro della scena, forte nel suo potere, ma debole nel suo consenso. È uno scenario completamente nuovo, che introduce un terzo attore, quello che non è puro mercato e non è neppure Stato: è la società civile nelle sue diverse articolazioni ed espressioni che si candida a giocare un ruolo come non era mai avvenuto nel corso degli ultimi trent’anni.

Ma la Social Business Initiative risale già al 2011…

Sì, in Europa la reazione alla crisi del 2008 si è tradotta in una prima apertura al tema dell’economia non di capitale già nel 2011, quando la Commissione Barroso adotta la Social Business Initiative (Sbi), piano predecessore dell’attuale. E questo dice due cose: da un lato, per la prima volta il tema “social” entrava nel linguaggio ufficiale della Commissione Barroso; dall’altro, però, ci dice anche che “social” era “business”. La Sbi non parla di cooperazione, Terzo settore o di impresa sociale. Nel corso dei dieci anni della Sbi, questa affermazione di principio fatta dalla Commissione cambia pelle e lo fa su pressione dal basso. Organizzazioni e studiosi fanno notare che l’adozione di queste categorie remote – tipiche dell’esperienza nordamericana incentrata sul singolo social entrepreneur – è il modo sbagliato di parlare di queste cose. Ha più senso guardare all’interno del Continente e lì trovare formule organizzative di tipo collettivo capaci di fare impresa e di essere, al tempo stesso, impegnate sui temi sociali. E quindi c’è una riscoperta – da parte della Commissione – del mondo delle cooperative, delle mutue, dell’associazionismo, delle fondazioni filantropiche. Si crea un “magma di riflessione”, il presupposto che, con la Presidente von der Leyen, ha giustificato il passaggio dalla Sbi all’attuale Piano d’Azione.

E ora che cosa dobbiamo attenderci, in Europa, dopo l’approvazione del Piano? Quali saranno le ricadute concrete più probabili per i soggetti dell’economia sociale?

Il Piano è ancora un atto di indirizzo, contiene diverse indicazioni concrete, che però devono essere rese operative. Nei prossimi mesi ci saranno alcuni passaggi importanti. Il primo è nel Consiglio Europeo del 2023, in cui il Piano verrà raccomandato dalla Commissione ai Paesi membri. Per il momento il Piano è della Commissione, quindi impegna solo il suo bilancio che, come noto, è quantitativamente poca cosa. È però importante perché dà degli indirizzi e, anche attraverso i meccanismi di cofinanziamento, “suggerisce” ai Governi nazionali la strada da prendere. Ora è in approvazione l’accordo di programmazione 2021-2027, che impegna i Fondi strutturali per i prossimi sei anni. Quindi l’allineamento tra il Piano d’Azione e i Fondi Strutturali è già un elemento significativo perché la nuova programmazione dei Fondi acquisisce come elemento centrale il tema dell’economia sociale. Chi ha visto la bozza del Piano italiano per i Fondi strutturali avrà notato che l’economia sociale e il Terzo Settore sono citati in quasi tutte le azioni. Quando questo diventerà Piano Operativo Nazionale e Piani Operativi Regionali, troveremo dei bandi sull’FSE e sul FESR in cui il ruolo dell’economia sociale sarà di primo piano. Un’altra conseguenza concreta è che le strategie di investimento della Banca Europea degli Investimenti nei prossimi dieci anni saranno orientate dal Piano d’Azione, peraltro nel quadro di un processo di semplificazione che negli ultimi due anni ha portato alla riconduzione dei diciotto fondi esistenti all’interno di un unico fondo, InvestEU.

A che punto è l’elaborazione della Raccomandazione? E quale contributo sta dando l’Italia?

Alla Raccomandazione stanno lavorando due Direzioni Generali, la Direzione Mercato interno, Industria, Imprenditoria e PMI (DG GROW) e la Direzione Occupazione, Affari sociali e Inclusione (DG EMPL). Il GECES (l’Expert group on social economy and social enterprises, n.d.r.), al quale appartengo, è coinvolto solo in modo parziale, nel senso che è un organismo composto di due tipi di membri, quelli nominati dalla Commissione e quelli nominati dai Governi nazionali. E qui c’è una nota dolente, perché l’Italia, per i primi due anni, non ha nominato il proprio rappresentante, e quando questo è stato nominato, l’anno scorso, non ha mai partecipato alle riunioni del Gruppo. Come esperti sappiamo che c’è un forte impegno da parte della Commissione per presentarsi al Consiglio con una Raccomandazione forte, sostenuta da due Commissari di peso: Nicolas Schmidt, che ha la delega a politiche sociali e lavoro, e Thierry Breton, che ha la delega sulle imprese.

Photo Credit: Pexels

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