I piani europei di ripresa post-pandemica sono stati concepiti in uno scenario in movimento, i cui riferimenti erano in corso di ridefinizione ben prima che il virus cominciasse a diffondersi. L’emergenza determinata dal Covid19 è sopraggiunta quando già si stava affermando il bisogno di ripensare le politiche di sviluppo dell’Unione europea. A partire dalla recessione del 2008, e ancor più con la crisi dell’eurozona del 2012, si è imposto il tema di un ripensamento del rapporto tra Stato e mercato.
La strategia precedente: dagli anni ’80 al 2020
Per quasi tre decenni, a partire dagli anni Ottanta, la strategia euro-unitaria si è concentrata sulla costruzione di un mercato competitivo, con la rimozione dei vincoli alla circolazione di beni e persone e con il costante ampliamento degli spazi per l’iniziativa d’impresa. Ma gli effetti della crisi finanziaria e delle politiche di austerità adottate per affrontarla hanno riportato l’attenzione sui temi sociali e sul ruolo delle politiche pubbliche necessarie ad affrontarli.
Il Piano di azione per l’economia sociale 2020
La traduzione di questo cambiamento di prospettiva è stato il Piano di azione per l’economia sociale, approvato dalla Commissione europea nel dicembre 2020. Nella qualifica di “economia sociale”, secondo la definizione UE, rientrano entità contraddistinte da modelli organizzativi e ambiti di intervento diversi, ma che – pur tenendo conto delle differenze tra i contesti giuridici nazionali – condividono tre caratteristiche fondamentali: a) sono organizzazioni in cui il primato delle persone e dell’interesse sociale e/o ambientale prevale sul profitto, b) in cui profitti ed eccedenze vengono reinvestiti in attività di interesse dei membri o utenti (interesse collettivo) o della società nel suo complesso (interesse generale), e c) in cui si adottano forme di governance democratica e/o partecipativa.
L’economia sociale e le politiche europee sociali, industriali e finanziarie
Pur non definendo una categoria giuridica vincolante, il concetto di economia sociale è entrato a pieno titolo nel contesto delle politiche europee, delineando un indirizzo destinato a influire a lungo sulle scelte future. Riscontri si hanno sia in termini di policy sia in termini di allocazione di risorse finanziarie. Sul primo fronte, la Commissione UE ha introdotto la prospettiva dell’economia sociale non soltanto nelle proprie politiche sociali, in attuazione del cosiddetto Pilastro europeo dei diritti sociali, ma anche – ed è una novità di rilievo – nell’ambito delle politiche industriali, con il riconoscimento di uno specifico “ecosistema” dedicato all’economia sociale e di prossimità. Sul fronte delle risorse finanziarie la rilevanza riconosciuta all’economia sociale prende invece la forma di maggiori investimenti e di un’attenzione specifica alla individuazione di strumenti e meccanismi appropriati. A partire dalle misure di InvestEU e fino alla programmazione dei fondi strutturali per il periodo 2021-2027.
Il benessere di persone e comunità: un fattore non più trascurabile
Questa premessa ha lo scopo di inquadrare il ruolo dell’economia sociale nelle politiche europee. Le crisi dell’ultimo decennio – dalla grande recessione alla pandemia – lo hanno imposto all’attenzione come un tema non più marginale. Lo sviluppo di queste peculiari forme di azione economica, in cui persone e comunità prevalgono sulla ricerca del profitto, è diventato un fattore non trascurabile per orientare in senso nuovo le strategie di sviluppo dell’Unione europea, in una direzione di ripresa e resilienza. Tra Piano europeo per l’economia sociale e Next Generation EU, il programma di reazione agli effetti sociali ed economici del Covid, c’è una continuità logica e un nesso di fatto.
Next Generation EU
Alcuni Stati membri hanno esplicitato questo collegamento nei loro piani nazionali. Tra questi France Relance, il piano del governo francese per l’utilizzo dei fondi di Next Generation EU. Sin dalle prime pagine il piano francese indica nell’economia sociale una delle chiavi di lettura attraverso cui interpretare l’intera strategia di rilancio. L’economia sociale non è un settore tra i tanti, al quale destinare una frazione delle risorse disponibili, bensì l’indicazione di un modello economico di cui incoraggiare lo sviluppo. Nel piano voluto dal presidente Macron si legge: “Le strutture dell’economia sociale e solidale hanno un ruolo di primo piano (…) come è emerso con evidenza all’apice della crisi e di questo si terrà conto nella fase di rilancio. I soggetti dell’economia sociale e solidale sono parte della resilienza dell’economia francese. Contribuiscono allo sviluppo di un modello di crescita sostenibile e solidale. Fondamentale sarà la loro funzione per accompagnare la transizione ecologica e nell’affrontare la battaglia per il lavoro e l’inclusione sociale”. E su una linea simile si colloca anche il piano della Spagna, che all’economia sociale da anni dedica uno spazio ampio nelle proprie politiche, indipendentemente dall’indirizzo politico dei governi al potere.
L’economia sociale in Italia
In Italia l’economia sociale è invece assente dal PNRR, benché nel nostro paese essa svolga funzioni e abbia numeri assai rilevanti, ancor più che in Francia o Spagna. E nonostante, va aggiunto, che nel corso delle recenti crisi abbia mostrato una notevole capacità di resilienza. Questa assenza in parte dipende da una diversa impostazione, che nel nostro ordinamento ha sviluppato maggiormente il concetto di “terzo settore”. Confrontando il linguaggio europeo con quello italiano la differenza che emerge è che il primo include l’esperienza cooperativa in tutte le sue articolazioni, e non solo le cooperative sociali. Il Terzo settore, nella prospettiva europea, è incluso nell’idea di economia sociale ma non la esaurisce. E questo disallineamento concettuale ha in certo modo ostacolato il trasferimento nel PNRR italiano dell’importanza riconosciuta dalle politiche europee al tema dell’economia sociale.
Il fatto che il PNRR si riferisca al Terzo settore, anziché all’economia sociale, ha una seconda implicazione, oltre al disallineamento rispetto ai documenti europei di indirizzo. Un’implicazione di tipo culturale, che riguarda il ruolo assegnato alle organizzazioni senza scopo di lucro nelle politiche pubbliche per la ripresa post-pandemica. Prefigurando, essenzialmente, un ruolo limitato ai temi più propriamente sociali, mentre tutte le evidenze empiriche mostrano che il Terzo settore ormai non opera più soltanto o principalmente nell’ambito dell’assistenza socio-assistenziale, bensì – come è stato formalizzato nello stesso Codice del Terzo settore (Dgls 117/17) – in una varietà di campi sempre più ampia e articolata, in risposta alla complessità ed estensione dei nuovi bisogni sociali.
PNRR e Terzo settore
Il tema del Terzo settore nel PNRR si presenta quindi in questi termini: alcuni (limitati) ambiti in cui la sua funzione è esplicitamente riconosciuta e richiesta, e altri (più numerosi) ambiti in cui il suo ruolo avrebbe potuto essere valorizzato se il Piano non fosse condizionato da un approccio culturale da cui traspare una accezione rimediale e marginalista delle organizzazioni non profit. In ciò marcando una consistente differenza rispetto all’impostazione di altri paesi europei, in cui come evidenzia il caso francese sopra menzionato l’economia sociale ha un ruolo di primo piano nell’utilizzo delle risorse di Next Generation EU.
Le misure per l’inclusione sociale
Nello specifico, le misure del PNRR che coinvolgono il Terzo settore riguardano il terzo degli assi strategici in cui il programma è diviso: quello dell’inclusione sociale. In particolare, nel testo il Terzo settore trova un riferimento specifico prevalentemente nella Missione 5 (Inclusione e coesione), che ha come principali obiettivi il sostegno all’empowerment femminile, il contrasto alle discriminazioni di genere, l’incremento delle prospettive occupazionali dei giovani, il riequilibrio territoriale e lo sviluppo del Mezzogiorno e delle aree interne.
Le realtà coinvolte nella missione 5
La definizione ed esecuzione dei progetti a valenza sociale e territoriale della missione 5 vede il coinvolgimento, in prima battuta, degli enti locali (comuni) e, in particolare delle aree metropolitane, che hanno il compito, con il contributo dell’Agenzia per la coesione territoriale, di attuare direttamente quanto previsto dal piano e di assegnare le risorse. L’azione pubblica potrà quindi avvalersi del contributo degli enti di Terzo settore (ETS) nella realizzazione dei progetti, nella logica di co-programmazione e co-progettazione prevista dalla legge-delega che ha riordinato le norme sul Terzo settore (Codice del Terzo settore, art. 55 d.lgs. 3 luglio 2017 n.117) e con l’obiettivo di favorire uno scambio reciproco di competenze ed esperienze tra volontariato, imprese sociali e pubblica amministrazione. Sul tema della cosiddetta “amministrazione condivisa” si tornerà più avanti per un commento alla luce di questo primo anno di attuazione del PNRR.
Le linee di intervento della missione 5
Più in dettaglio, la missione 5, che prevede complessivamente lo stanziamento di €19,85 miliardi, si compone di tre linee di intervento, accompagnate ciascuna da una serie di riforme finalizzate a sostenere e completare l’attuazione degli investimenti. Nella Componente 1 (Politiche per il lavoro), sebbene non direttamente menzionati, gli ETS sono in prima linea negli interventi finalizzati all’inserimento lavorativo, all’assistenza ai NEET e all’empowerment femminile. A questi ambiti si aggiunge il potenziamento del servizio civile universale dove il ruolo degli ETS è riconosciuto come fondamentale. Nella Componente 2 (Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo settore) viene data rilevanza alla dimensione sociale e gli enti del Terzo settore rivestono una funzione di primo piano nel prevenire l’esclusione sociale, intercettando e contrastando situazioni di fragilità sociale ed economica. Oltre agli esempi più noti dei servizi per la cura degli anziani, dei portatori di handicap e per l’inserimento lavorativo e la formazione di persone con difficoltà nell’accesso al lavoro, l’azione degli ETS viene considerata importante nel settore dell’housing sociale, nei progetti di rigenerazione urbana, nella realizzazione e gestione di servizi alle comunità disagiate e nelle attività sportive come strumento di inclusione sociale. La terza componente (Interventi speciali di coesione territoriale) si articola in due settori d’intervento: 1) il piano per la resilienza delle zone interne, periferiche e montane, attraverso il rafforzamento delle aree interne; 2) i progetti per lo sviluppo del Sud, compresi gli investimenti per combattere la povertà educativa, nonché la riqualificazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata e gli investimenti infrastrutturali nel potenziamento delle Zone economiche speciali (ZES). Il Terzo settore – praticamente è l’unico caso nel PNRR – viene indicato come destinatario diretto di contributi per contrastare la povertà educativa delle regioni meridionali, con specifico riferimento ai servizi assistenziali nella fascia 0-6 anni e a quelli di contrasto alla dispersione scolastica e di miglioramento dell’offerta educativa nella fascia 5-10 e 11-17. Obiettivo è l’attivazione di progettualità condotte finalizzate a coinvolgere fino a 50.000 minori che versano in situazione di disagio.
Le altre missioni del PNRR
Questi sono gli ambiti in cui il PNRR prevede esplicitamente il coinvolgimento degli enti di Terzo settore, sia pure per il tramite degli enti locali in quanto destinatari diretti degli interventi del Piano. Molte altre, però, avrebbero potuto essere le misure la cui efficacia sarebbe stata incrementata incentivando la partecipazione del settore non profit: dalla valorizzazione dei beni culturali e della produzione creativa (missione 1) all’agricoltura sociale (missione 2), dal potenziamento delle competenze e del diritto allo studio (missione 4) al potenziamento e alla riorganizzazione su base territoriale dei servizi sanitari, in particolare per la componente dell’assistenza domiciliare (missione 6). Tutti ambiti in cui la presenza delle organizzazioni del Terzo settore (o, meglio ancora, dell’economia sociale, utilizzando la terminologia europea) è ormai più che consolidata e tutt’altro che marginale.
Considerata l’impostazione del Piano, non si può in effetti escludere che nel passaggio all’implementazione delle singole misure gli enti pubblici, in particolare comuni e aree metropolitane, possano coinvolgere gli ETS, specie dove già è radicata una consuetudine di collaborazione. La mancata menzione del ruolo del Terzo settore non implica di per sé che nelle realtà più motivate e caratterizzate da pratiche partecipative non vi siano spazi per recuperare ciò che nel Piano non è dichiarato esplicitamente, ovvero la necessità di mobilitare ad ampio spettro le risorse e le energie del settore non profit. Tuttavia, in questo primo anno di applicazione del PNRR si è anche avuta conferma del fatto che non è un percorso agevole. Il caso del bando per la realizzazione di asili nido ha evidenziato come sia difficile portare all’interno di progetti pensati solo dal punto di vista infrastrutturale l’approccio di una gestione innovativa che valorizzi il contributo della società civile e delle sue organizzazioni.
Il codice del Terzo settore per la co-programmazione funziona?
Questa considerazione ne richiama un’altra, conclusiva, che si collega a quanto accennato sopra. Uno degli elementi più importanti introdotti dal Codice del terzo settore riguarda l’art.55 e il principio dell’”amministrazione condivisa”. Alla base, si trova una ridefinizione del rapporto tra la pubblica amministrazione e i cittadini (e le loro organizzazioni), quando le attività riguardano l’interesse generale. Il quadro giuridico che a seguito del riordino del 2017 si apre davanti al Terzo settore italiano prevede che il rapporto con il settore pubblico non avvenga soltanto secondo le modalità di una relazione tra committente e fornitore, in ossequio alle regole della concorrenza e al Codice degli appalti. Alle regole del public procurement, temperate tuttalpiù da un regime di favore che le traduce in “social procurement”, il Codice del Terzo settore affianca un’alternativa, che consiste nelle procedure di co-programmazione e co-progettazione, che trasformano il rapporto in senso collaborativo o appunto di una “amministrazione condivisa” in nome dell’interesse generale. Questa sostanziale innovazione – ribadita anche dalla sentenza della Corte costituzionale 131/2020, che ha preso posizione rispetto alla presunta subordinazione del Codice del Terzo settore rispetto al Codice degli appalti – è formalmente richiamata nel PNRR, ma non si può dire che sia stata incoraggiata nella sua applicazione. L’imperativo imposto dai tempi di realizzazione dei progetti e la ancora scarsa pratica delle amministrazioni pubbliche con il metodo e le procedure della co-progettazione non hanno favorito il ricorso a questa modalità. E se tra i lasciti del PNRR avrebbe dovuto esserci una spinta decisa all’innovazione delle procedure della pubblica amministrazione, la scarsa rilevanza assunta dall’art.55 nella realizzazione dei progetti finanziati dal PNRR è un’occasione mancata che potremmo dover rimpiangere.
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