C’era la sharing economy. Un approccio all’innovazione tecnologica in cui incanalare il dinamismo di una spinta partecipativa dal basso, basata sul principio di condivisione. Con la promessa di riconoscere ad ogni persona il potere di agire per trasformare rapporti fondati solo sul profitto in relazioni più ricche, costruite per favorire maggiore accessibilità a beni e servizi, e al tempo stesso per migliorarne la sostenibilità attraverso forme di uso condiviso. Un approccio trasformativo che non poteva non suscitare grandi aspettative nel mondo dell’economia sociale e del Terzo settore, di cui sembrava cogliere alcuni dei valori profondi.
La trasformazione della sharing economy
Ma la sharing economy ha preso un’altra direzione. È prevalsa una reinterpretazione basata su modelli di business estrattivi, in cui la potenza di pochi soggetti tecnologicamente e finanziariamente robusti si è imposta con nuove forme di monopolio. Archiviati gli entusiasmi iniziali, l’attenzione si è quindi spostata sui modi per contenere il potere delle piattaforme, nate sull’onda di una filosofia della condivisione e finite con il rinnegarla. Il discorso sul digitale è migrato verso suggestioni come le “piattaforme cooperative”, la blockchain o, in ambienti più ristretti, le criptovalute.
Dalla sharing economy al monopolio per sopravvivere al mercato
Ma la lezione della sharing economy dovrebbe aver chiarito che l’allineamento tra mezzi e fini non è affatto scontato. L’equivoco del “tech for good” nasce dalla convinzione che la rete e le sue tecnologie siano strumenti che con poco sforzo possono essere orientati allo sviluppo delle persone e delle comunità. Mezzi dalle finalità intrinsecamente sociali, sin dal nome, nei quali la logica dello sfruttamento commerciale si è infiltrata dall’esterno. L’esperienza di questi due decenni ha mostrato invece che all’economia delle piattaforme digitali per non soccombere è d’obbligo il gigantismo, l’aspirazione a creare monopoli. Una piattaforma ha la necessità di dominare il proprio mercato di riferimento; maggiore il numero di utenti che la utilizzano, più attraente essa risulta (e, quindi, meglio funziona). È la logica stessa del social network a premiare gli strumenti che, per capillarità e prestazioni, attirano e trattengono la maggioranza degli utilizzatori. Perciò servono risorse finanziarie robuste e modelli di crescita accelerata: terreno ideale per gli investimenti della finanza globale.
Sta qui il motivo, spesso incompreso dal mondo non profit, per cui il volontarismo non è sufficiente ad orientare il mezzo digitale in funzione del fine sociale. In questi due decenni l’economia dei big data si è affermata come economia di concentrazione; perciò l’impresa di capitali globalizzata è la sua espressione di maggiore successo. Nell’industria digitale i modelli di business alternativi sono una autentica rarità: Wikipedia non ha fatto scuola, e anche iniziative più recenti inizialmente in forma non profit – come OpenAI, la società di ricerca del celebrato sistema di intelligenza artificiale ChatGPT – quando dal laboratorio si sono mosse verso il mercato si sono convertite a modelli profit.
Il rapporto tra digitale e Terzo settore
Dunque, il rapporto tra digitale e Terzo settore è inevitabilmente di subalternità? La risposta è: dipende. Se l’ambizione è quella di affermare un modello sociale di business digitale, alternativo a quelli dominanti, la risposta è che la forza degli attuali player è talmente radicata nelle caratteristiche strutturali della tecnologia da rendere improbabile una loro sostituzione o riconversione. Viceversa, se l’approccio è quello di favorire la transizione digitale dei modelli di impresa sociale, sia nuovi che attualmente esistenti, al fine di incrementarne l’efficacia, l’accessibilità e la portata, lo spazio di intervento non solo è consistente ma richiede anche urgentemente di dedicarvi energie e risorse.
La transizione digitale del Terzo settore
Pensiamo al settore dell’assistenza e della cura, dove se è vero che le prestazioni non possono fare a meno della dimensione empatica di una relazione personale è altrettanto vero che ci sono ampi margini di miglioramento nell’organizzazione dei servizi grazie ad un uso intelligente di tecnologie digitali. Da una transizione digitale ben architettata e implementata possono dipendere sostanziali incrementi di efficacia nella progettazione, gestione e valutazione dei servizi, con benefici tanto per gli operatori quanto per gli utilizzatori finali.
Il punto è quindi saper individuare il discrimine tra le innovazioni tecnologiche, da un lato, che permettono di incrementare l’efficacia delle attività delle organizzazioni dell’economia sociale e l’aspirazione, dall’altro, a trasformare in senso sociale e solidale il modello di business dell’economa digitale. Lo sforzo nella prima direzione è necessario e indifferibile; richiede una rinnovata lettura dei bisogni nonché una conoscenza approfondita delle opportunità che i processi di innovazione tecnologica mettono a disposizione del Terzo settore. Il programma di trasformare i modelli di business dell’economia digitale, invece, non può essere affrontato basandosi sul presupposto di una diversa intenzionalità, ma richiede piuttosto interventi regolatori e normativi.
Come sviluppare l’economia digitale nel dibattito pubblico
Prima ancora che di modelli di impresa alternativi c’è bisogno di forme di regolamentazione che contrastino le pratiche di sfruttamento estrattivo. Terzo settore ed economia sociale hanno sì un ruolo da svolgere, ma non è tanto quello di opporre alle attuali forme di business dei modelli alternativi e socialmente orientati, quanto piuttosto quello di far sentire la propria voce animando un dibattito pubblico sulle condizioni che l’economia digitale deve rispettare nel proprio sviluppo. Su questo fronte non mi sembra che le iniziative abbondino, eppure si tratta di un’azione politica alla quale il Terzo settore potrebbe contribuire sostanzialmente. Forse può apparire un ruolo meno gratificante rispetto alla invenzione di modelli alternativi, ma di sicuro ne è una premessa necessaria, e probabilmente risulta più efficace se si vuole mettere in discussione l’economia della concentrazione e dei monopoli digitali.
Gianluca Salvatori
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